Il manovratore di sogni

2 novembre 2014

bunnyclouds

La balena è il sogno più frequente dei marinai che si addormentano sulla barca e non pescano un pesce in tutta la notte. Però è bello vederla da lontano, quando lascia il mare e sale nel cielo dall’orizzonte. Stamani c’era uno spettacolo meraviglioso. Non sono nubi quelle che stanno in cielo quando scompare la notte. Sono sogni. I sogni più grandi, le nuvole enormi, sono dei bambini. C’erano grossi conigli che rincorrevano leoni dalle fauci spalancate e draghi dalla coda lunga, creati dal sonno dei più timidi. C’erano le aquile dalle grandi ali spiegate nei sogni di quelli più audaci. C’era anche la balena e vagava alla deriva sopra il mare che alita sale su questo paese. E c’erano elefanti in fuga da enormi farfalle, cavalli imbizzarriti e cavalieri disarcionati, c’era, insomma, un gran marasma, ma quello che popola l’alba è sempre un marasma silenzioso, come se tutto si potesse fare anche senza tanto baccano. I sogni raccontano una storia infinita, è un mondo fantastico che esiste da sempre, o almeno da quando gli esseri umani hanno iniziato ad addormentarsi. Le stagioni dell’uomo distruggono i sogni, li trasformano in desideri e li sbattono a terra accompagnati dalle stelle che cadono in una notte d’agosto, ne cercano il possesso. I sogni sono un bene comune che solo l’assenza di realtà può mantenere. Soltanto uno ha giustizia nella realtà. È il sogno di chi ha un vuoto d’amore da colmare e non serve chiudere gli occhi, non ha importanza che sia notte o che arrivi il giorno, non conta nient’altro che si potrebbe pensare, perché è un sogno perenne. 
Ho incontrato il bambino dai capelli neri all’alba, molto tempo prima di riuscire a portarlo qua davanti a  me, insieme agli altri dai capelli di colore diverso che hanno seguito la sua stessa strada. Ero un giovane studente di giurisprudenza all’ultimo esame e avevo passato una notte torbida di caffè per restare sveglio. Tutto il mio futuro era scritto sui libri, ma non mi scordavo mai di aprire la finestra per guardare il cielo. Era estate e il sole stava sorgendo mentre la gran parte delle creature dormiva. Solo pochi uccelli si erano accorti prima di me che la luce aveva iniziato a sudare dal buio e avevano cominciato a cantare. Ho alzato la testa quasi meravigliato che fossero già trascorse tante ore  dall’ultima volta che mi ero preoccupato del tempo e mi sono avvicinato alla finestra. La prima nube che è apparsa aveva il volto pallido e lunghi capelli dorati dall’alba, sotto di lei ce n’era una più piccola e rotonda, dal viso paffuto come quello di un bambino e con un ciuffo nero che sembrava un segno resistente della notte. Era evidente che le due nuvole volessero stare vicine, seguivano insieme  i corridoi d’aria che si formano in quota, senza mai perdersi ma senza toccarsi, senza che il vento riuscisse né ad allontanarle, né a cambiarle di forma, come se tra loro ci fosse un desiderio silenzioso tanto forte quanto lontano dal realizzarsi.
Da quella mattina ho capito qual era la mia strada, dove mi avrebbe portato, come dare senso concreto a un manovratore di sogni. Il gioco che fin da bambino mi faceva immaginare le mille storie dipinte ogni giorno nel cielo dalle nubi era il mio destino. 
Nel mio ufficio nel Tribunale dei minori c’è una grande finestra, ogni volta che rientro da una riunione della commissione mi fermo un momento davanti ai vetri e guardo in alto, faccio silenzio dentro me stesso prima di ricominciare a lavorare. Ogni volta ho dentro di me una piccola felicità scalpitante, la gioia di una promessa mantenuta. L’adozione è  una lunga distanza percorsa a piccoli passi, la meta è un sogno d’amore, anche la grande forza dei sognatori, delle coppie che intraprendono la strada, diventa fragile nel tempo che occorre e che sembra infinito. Ma c’è un giorno che arriva all’improvviso, nel cielo la nube dai capelli dorati sfiora la piccola nube dal ciuffo nero. Una donna dai capelli biondi diventa madre, un uomo ha un sorriso di padre e un bambino dai capelli neri ha una famiglia e altri sogni da incontrare.

© Gianna Brigatta

Due destini

4 settembre 2014

 

redapple

 

Lei era una bambina dai lunghi capelli neri e lui un bambino dai capelli fini e biondi, quando si odiavano. Erano i bambini più belli del paese. Si odiavano come sanno odiarsi i bambini, mostrandosi la lingua ogni volta che gli sguardi si incrociano. Poi, alla soglia dell’adolescenza, erano spariti entrambi alla vista di tutti, come se qualcuno li tenesse nascosti o come se fossero loro a non farsi più vedere. Riapparvero qualche anno più tardi, insieme, nello stesso istante, nello stesso incantesimo malvagio, nella stessa piazza: lei era la donna grossa e lui l’uomo piccolo.
Era il giorno del mercato, c’erano bancarelle piene di frutta e chincaglieria domestica, c’era tutto il paese che girava, si urtava e calpestava senza chiedersi scusa. Quando apparve la donna grossa tutta la gente le fece posto, arretrò di qualche passo e intorno a lei si creò uno spazio innaturale per quel luogo, in quel giorno, un cerchio magico, come se una sfera avesse trapassato un mondo bidimensionale. La donna si muoveva con grande fatica, a passi piccoli, strusciando le suole delle scarpe, sembrava che anche la polvere fosse per lei un ostacolo da superare e non si riusciva a comprendere se tra le labbra avesse un sorriso per tutti o se fosse una smorfia del suo sforzo. C’era anche l’uomo piccolo, tra la gente vicino alla donna grossa, ma pochi se ne accorsero. Finì calpestato e annegato tra la folla, cadde sotto il banco dei cocomeri e solo una bambina lo aiutò a rialzarsi. Riuscì però a vedere la donna grossa e la riconobbe da quello stesso sguardo che aveva incrociato tante volte quando erano bambini e la lingua non gli uscì, gli servì solo per deglutire mentre il cuore gli si allargava nel petto, pompandogli tutto il sangue sulle guance. Fu così che l’uomo piccolo si innamorò a prima vista della donna grossa. La guardò avvicinarsi a un cumulo di mele rosse e indicarle con lentezza, alzando il braccio come un bagaglio pesante e stendendo l’indice come una farfalla che esce dal suo bozzolo; ne prese solo una, pagandola con quel sorriso che la portava in giro come un guinzaglio. La settimana successiva, quando giunse di nuovo il giorno del mercato, l’uomo piccolo tornò nella piazza e attese l’arrivo della donna grossa, ma lei non apparve; così fu lui a comprare un sacchetto di mele e a incamminarsi verso la casa dove lei aveva sempre vissuto, sperando di trovarla, non di certo per sentirsi migliore di chi fosse mai stato, ma perché non era mai arrossito prima e in cuor suo sentiva indispensabile arrossire ancora. La casa della donna grossa era appena fuori dal paese, lui percorse la strada principale allontanandosi dalla piazza, camminando rasente ai muri in compagnia della sua ombra, come il volo di una piccola rondine che infila il cielo di una strada con il vento, mentre in basso la forma del suo corpo è una macchia più scura sull’asfalto, del tutto impercettibile tra i passi della gente. Si muoveva rapidamente, come un filo che centra la cruna di un ago e corre a cucire due destini in un istante.
La donna grossa sedeva al tavolo nella sua cucina, con le braccia distese sul piano, era immobile e l’unico movimento del suo corpo era involontario, un respiro lento come il tempo nell’attesa di niente. Con gli occhi guardava lontano, oltre la finestra, aspettava che tornasse il gatto, aspettava di vederlo entrare in casa con un salto dal davanzale. Guardare fuori era l’unico modo che conosceva per non sentirsi sola, perché guardare dentro, sia le stanze della casa, sia i suoi pensieri o il suo cuore, la faceva entrare in una disperazione che poi non gli passava neppure quando arrivava il gatto. Quando il campanello suonò la prima volta la donna grossa non se ne accorse, perché era solo il gatto che aspettava. L’uomo piccolo attese a lungo davanti alla porta prima di decidersi di allungare ancora la mano sopra la sua testa e suonare una seconda volta. La donna grossa tremava quando arrivò ad aprire, perché la prima sorpresa è quasi uno spavento. Restò per un po’ a guardarlo quando se lo trovò davanti, ma lo riconobbe subito dal suo sguardo e quando lui gli porse una mela dal sacchetto lei gli sorrise, mostrandogli la lingua solo prima di farlo entrare. L’uomo piccolo si sedette al tavolo proprio davanti a lei, li separava ancora soltanto una fila di mele e bastò spostarne solo una per sfiorarle la mano e darle la prima carezza, cucire due destini tra le dita e non accorgersi neppure di quando arrivò il gatto.
Oggi è il primo giorno d’autunno ed è il giorno del mercato, ma la piazza è vuota. Tutto il paese è altrove. La gente si spintona e si calpesta davanti al municipio senza chiedersi scusa. Oggi l’uomo piccolo e la donna grossa sono sposi. L’autunno quest’anno avrà un grande sorriso rosso da posare su tutti gli alberi.

© Gianna Brigatta

 

Orologi

31 luglio 2014

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Cristiana ha gli occhi verdi. Sono una discesa senza bombole, sono tutta la speranza smarrita di chi non ha più speranza. Le lacrime sono spilli appuntati agli angoli degli occhi, solcano le orbite come fiumi sotterranei. La pelle è grigia come tutto quello che si dimentica, come un osso nascosto in un campo pieno di fosse. Cristiana conosce la morte e porta in giro il suo scheletro come se fosse il trofeo della sua sopravvivenza. Sotto gli zigomi c’è un abisso scavato dalla magia che buca le vene e svanisce a ogni risveglio. Ha i denti consumati da mille sorrisi falliti. La bocca larga piena di vuoti. Lo sterno ampio di chi ha troppo cuore, dove gira un’eco che diventa un tarlo. Ha mani grandi che nessuno ha mai raccolto. Ha una voce fatta d’aria, il fischio di un treno che gli soffia dai polmoni ad ogni respiro. Perché sono partiti tutti e l’hanno lasciata sola. Se ne sono andati gli amici e i nemici. Potrebbe fregarsene di tutta quella gente che le gira intorno e non le si ferma mai accanto. Ma Cristiana non lo fa. «Io non posso girarmi dall’altra parte se ogni giorno tra la gente cerco un fratello, una sorella, la mia più cara amica. Se per prima io non posso essere tua amica e tua sorella, allora posso smettere di cercare. Se io non fossi la controprova, fratelli, sorelle e amici potrebbero non esistere». Questo è quello che pensa. Ha un piccolo orologio che si carica a mano e che si ferma ogni tre ore, perde minuti come sabbia da un pugno. È il suo tesoro. Non ha lavoro e non ha appuntamenti. Ha solo l’orologio di sua madre. Che non c’è mai stata e ha un volto fatto di numeri romani e ciglia lunghe come due lancette. Oggi vorrebbe stare in giro a cercare un’ombra nei giardini, è piena estate e fa caldo, si affretta per attraversare la strada e raggiungere il parco, ma all’improvviso si blocca e volta la testa. «Li vedo come se fossero illuminati, fatti di neon, e tutto il resto diventasse buio. Perché io sono parte della cura e parte della malattia». Questo è quello che pensa quando la nota, anche se è una donna senza colori, tra la gente è un’ombra che cammina veloce a testa bassa. Segue un uomo distratto da una conversazione gridata ai quattro venti, per farsi sentire da chi lo sta chiamando quasi non gli servirebbe neppure quel cellulare che tiene vicino all’orecchio, con il gomito alzato come a parare i colpi in combattimento. L’uomo indossa un paio di jeans stretti, che soffocano il passo in una taglia che non è più la sua, adornati da quattro tasche inutili, dove gli spiccioli si recuperano solo in lavatrice, e il portafoglio sul di dietro sbuzza fuori per metà. Ha un orologio grosso e automatico, con cronografo, termometro, etilometro e distributore di caffè. Niente di comparabile con quello che Cristiana tiene al polso. Cristiana nemmeno l’ha visto quell’orologio, anche se ormai da un po’ di tempo segue l’uomo e la donna per strada. Camminano insieme, ma l’uomo non sa di essere seguito da due donne e anche la donna a testa bassa non si è accorta di Cristiana che le resta ai tacchi. La gente per strada ha altro da fare. C’è chi cerca le chiavi della macchina e non le trova. Chi ha sbagliato il colore dei calzini. Chi si tormenta i foruncoli anche mentre cammina. Chi pensa ancora al telegiornale. Chi ha le cuffie e sta in mezzo ad un concerto rock. Chi si è rotto un’unghia, dannazione! Chi è già a lavoro prima di arrivarci.
Quando l’uomo raggiunge il piazzale delle corriere la donna lo urta, ma manca di destrezza e il portafoglio non esce dalla tasca. Cristiana è lì e sgrana gli occhi quando lui si volta, ammicca alla donna, gira la bocca in una smorfia, aggrappa l’aria in un gesto per raccontare quello che non è accaduto. La donna se ne va prima di essere scacciata, in una frazione di secondo, come la mela di Guglielmo Tell centrata dalla freccia. E se davvero una freccia fosse stata scoccata gli occhi di Cristiana sarebbero stati un arco. L’uomo ha perso la corriera e le si avvicina, la guarda negli occhi e si cala in mare senza bombole. Si è tolto l’orologio dal polso e lo porge a Cristiana, ma lei scuote la testa e i suoi capelli lisci chiudono il sipario. Alza una mano, il palmo disteso è una mappa di linee che raccontano la sua vita, una terra riarsa spaccata dalle cicatrici del destino. «Non mi devi niente, non l’ho fatto per te e lo farei per chiunque» dice Cristiana, ma l’uomo insiste perché prenda il suo orologio per ricordo. Lei gli ripete, fischiando la sua voce più forte, «Davvero, non lo voglio, ho il mio e ha un grande valore. Niente di comparabile. Il mio è più prezioso perché sa perdere il tempo» e gli sorride, senza fallire.

© Gianna Brigatta

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Negli ultimi anni non ho visto spesso mio fratello. Da bambini invece eravamo inseparabili, non muovevo un passo senza di lui. Mario ha pochi anni più di me, ma fin da bambino, prima che acquistassi sicurezza in me stesso, anche nei momenti in cui io non sapevo che pesci prendere, lui pescava squali in tutta tranquillità. È sempre stato più forte di me, ma non è mai stato desiderato, a prescindere dalla strafottenza che dimostrava verso il resto del mondo e che soltanto io ammiravo. Se la prendeva sempre con tutti, anche con la nonna, era contro tutto quello che non andava secondo la sua logica infallibile, o il suo senso di giustizia e di verità. La nonna aveva un fissazione, una tradizione, una panacea, una scaramanzia: l’amaro dei frati della Certosa. Tutta la famiglia doveva berlo alla fine di ogni pasto, chiunque venisse a trovarci non poteva uscire senza aver trangugiato il suo bravo bicchierino, tanto che in paese l’amaro dei frati era conosciuto come “l’amaro di Berta” anche nei bar. Dai quindici anni in poi, toccò anche a me e mio fratello. Io lo buttavo giù come se fosse un rospo. Lui serrava le labbra fino a farle sparire, una volta si tolse delle margherite dalla tasca dei pantaloni e ce le mise dentro. Era il mio eroe. Anche quando prendeva discussioni interminabili con la nonna, che sosteneva a lingua tratta che chi beveva l’amaro dei frati fosse più felice. Mario già a quindici anni riusciva a discutere di psicologia senza aver letto Freud. Quando attaccava l’arringa restavamo soli, la tavola si spopolava, ma anche senza pubblico lui non lasciava mai un discorso a metà. Io gli sedevo accanto e guardavo il suo profilo: lo sguardo fiero e il naso triste, la bocca dalle labbra pronunciate che si muoveva rapida tra le parole e faceva uscire una voce ora rombante come una Harley, ora stonata come il cigolio di un cardine da registrare. Aveva quindici anni e non conosceva bugie, neppure di quelle piccole che a quell’età ti salvano una settimana di televisione. L’amaro dei frati, per quello che lo riguardava, era il liquido di un serpente velenoso. E la felicità era qualcosa di ben più grande di due dita di liquore in un bicchiere. Anch’io la pensavo come lui, ma non l’ho mai detto. Diversamente da cosa poteva sembrare, non restavo accanto a lui per non lasciarlo da solo. Ero io che non riuscivo a stare senza di lui. Appena cinque anni dopo, invece, quando mi sono innamorato di Aida, me ne sono andato e mi sono trasferito ad Ancona. Lui non è mai venuto a trovarmi. Aida era bella e occupava tutti i miei pensieri. Erano i primi anni ’70,  la prima volta che l’ho incontrata era notte. A Roma. Stava dipingendo il simbolo della Pace sopra ad un muro nei pressi della stazione, con mano sicura, creava dal nulla un cerchio perfetto, come se fosse sempre esistito e lei fosse lì solo per scoprirlo agli occhi di tutti. Non le ho mai parlato di Mario. Da quella sera avrei seguito lei e il suo golden retriever in capo al mondo ma mi sono fermato a casa sua, pochi mesi dopo. Quando chiamavo la mia famiglia al telefono parlavo con mamma, la nonna Berta e papà, come se partendo  mio fratello lo avessi disgregato, nella completa indifferenza che cresce rigogliosa sopra a un tradimento. È successo anche con Aida, siamo spariti nel nulla, nello stesso istante, dopo dieci anni, quando entrambi eravamo a stento riconoscibili l’uno per l’altra. Sono tornato a Taranto.
Ieri ero alla fermata dell’autobus, con il biglietto in bocca e le mani impegnate dal cellulare. Proprio davanti a me si è fermata una macchina, è scesa una donna troppo magra e troppo truccata che si è allontanata di fretta. Dal finestrino aperto ho visto l’uomo alla guida di profilo, lo sguardo non era fiero come quello che conoscevo un tempo, era più sottomesso e aveva la stessa tristezza del naso. Era Mario. O gli somigliava. Ho rincorso l’auto, l’ho chiamato e il biglietto mi è caduto dalla bocca come una foglia morta. Avrei voluto che fosse lui. Avrei voluto che scendesse dall’auto, che mi rompesse il naso con un pugno e che mi deridesse per tutto quello che non andava in me secondo la sua logica infallibile, o il suo senso di giustizia e di verità. Poi ho smesso di correre e sono tornato sui miei passi, mentre dalla pancia ho cominciato a tossire una risata isterica. Tornando indietro non ho ritrovato neppure il biglietto, l’ho perso insieme a lui. Ecco, questa è stata la fine del mio spettacolo, l’eclissi di un mito che fa parte di me da quando ho imparato a camminare. Avrei dato una costola per averlo ancora accanto, ma Mario non c’era e non c’era mai stato. Non è mai esistito. Sono figlio unico e non ho più tanta immaginazione, ma lo amo ancora più di me stesso.

© Gianna Brigatta

The Wall by BaciuC su DeviantART

 

Le chiamavano fotografie, mio padre ancora le conserva. La vecchia Harlow era proprio un altro posto. A quei tempi i Barrow erano giganti e lo siamo ancora rispetto agli altri, l’altezza nella mia famiglia si è ridotta di soli tre piedi. Siamo diversi e per noi non c’è alcun luogo dove abitare in questa città. Viviamo per strada. Mio padre, mia sorella ed io siamo asteroidi in collisione con questo mondo che ci considera elementi di un attacco alieno. Non siamo gli unici, ma siamo in pochi. Possiamo parlare solo tra noi, non ci è concesso rivolgere la parola agli altri, quelli che vivono nelle case di Harlow. Così il giorno passa in silenzio. Ogni giorno è una tavola liscia su cui scivolare, senza lasciare traccia. Siamo impiegati nei lavori più umili e pesanti, lavori occasionali che al massimo possono durare per una settimana, per evitare di stabilire contatti personali. Siamo considerati individui pericolosi, fatti di cellule sovversive, di una ribellione che neppure la scienza è riuscita a piegare. Chi se lo può permettere, quelli che si sono ridotti di poco meno di quattro piedi, cercano di mimetizzarsi, indossano cappelli e camminano trattenendo il passo entro una falcata insospettabile. Spesso sono madri a cui sono nati figli che crescono secondo le tabelle di normalità, perché la legge vuole che altrimenti i bambini vengano allontanati dalla famiglia d’origine. Semplicemente allontanati, senza che sia prevista un’adozione. C’è un quartiere dove si erge l’Istituto dei Nuovi Cittadini, è qua che vengono raccolti fin dall’età scolare ed educati secondo le regole etiche della nuova Harlow. Il quartiere si sviluppa su pianta circolare ed è cinto da mura molto alte, vi si accede attraverso un’unica porta, c’è una lunga saracinesca che cade dall’alto insieme alla notte. Ogni entrata nel quartiere è sotto sorveglianza, i guardiani sono scelti fra le seconde generazioni. I nuovi cittadini di terza generazione possono vivere fuori dal quartiere, escono ogni venerdì, anche se ogni anno vengono ancora controllati e misurati come bestie da mercato. Preferisco la strada, i ponti e i rifugi di fortuna, essere dimenticato dalla storia e guardare in faccia ogni sera un vecchio e una ragazza in cui mi riconosco. Ma ho un amico che vive là dentro, per questo ogni tanto mi avvicino, anche se so che non riuscirò mai più a vederlo. Mi fermo davanti alla saracinesca quando è già chiusa e immagino di aprire un taglio nella lamiera, un piccolo occhio rugginoso da cui possono entrare quelli che penso siano ancora i nostri ricordi. Credo che anche una buona educazione non possa stordire del tutto i ricordi della strada, che resti qualcosa per sempre. I colori cambiano attraverso le sfumature, è un passaggio che resta nella memoria, ogni verde è stato azzurro, ogni uomo ha un presente e un ricordo del passato che è la propria sfumatura. Ricordo quella volta in cui siamo saliti sul ponte, sotto ci vivevamo. Peter aveva pochi mesi più di me, ma era già molto più piccolo, sua madre da pochi giorni aveva comprato i cappelli da indossare per strada. Mia madre non c’era già più. C’era mia sorella, metterla al mondo era l’ultima cosa che aveva fatto. Io e Peter camminavamo a poca distanza sulla spalletta, lui davanti e io dietro. Ad un tratto lui si è fermato e si è capovolto, ha messo i piedi nel cielo con una verticale perfetta e mentre lui rideva, con la faccia rossa e gli occhi sgranati, io gridavo come in un incubo. Non ho mai avuto il suo coraggio. Quando è stato notato, perché il cappello l’aveva perso nel fiume, e sono venuti a cercarlo per portarlo all’istituto, era con me. Mi ha guardato per l’ultima volta e mi ha salutato come se ci fosse ancora un domani. Sua madre invece è svenuta senza dargli neppure l’ultimo bacio. È il suo coraggio che mi fa ancora pensare che tutto non sia perso. Se avrò figli ogni venerdì all’alba verranno con me davanti alla porta del quartiere dei Nuovi Cittadini e impareranno ad aspettare quello che non accade mai. Nella vita bisogna avere un sogno, anche se resta un sogno non per questo è una delusione. Resta un sogno. Conosceranno Peter da quell’azzurro che è stato il cielo che abbiamo condiviso, che è il mio passato e il suo. Il suo coraggio è il verde su cui adesso il mio sogno si dipinge. Certe volte davanti a quella porta ho una gioia sottile che mi agita, una trepidazione che mi punge la pelle, sento un picchiettio sulle tempie e guardo in alto, dove finiscono le mura e inizia la notte. Certe volte i sensi mi giocano lo scherzo di farmelo vedere lassù, ancora bambino, steso in una perfetta verticale. Sempre più audace di me, che non riesco neppure a immaginare di volare oltre la barriera per cercarlo, mentre stacca una mano dall’appoggio e mi saluta con i piedi tra le stelle.

© Gianna Brigatta

La figlia della Luna

22 aprile 2014

Moonchild - Gilles Grimoin

Moonchild – Gilles Grimoin

 

C’era una casa appena fuori dal paese dove abitavano due donne, di giorno erano ombre dietro le tende di lino ricamate ed uscivano fuori solo quando per strada non c’era più nessuno. Non uscivano mai insieme, erano Luna e sua figlia Aurora. Di sera, la strada che si allontanava nella campagna era una lunga ombra che nascondeva ogni movimento, mentre giù nella piazza del paese c’era la luce gialla dell’insegna del Bar del Sole che illuminava il suolo e ogni passo che gli si avvicinava. Luna non scendeva in paese da diversi anni, si muoveva male, aveva due gambe da merlo e un corpo imponente, la pelle era liscia e così tesa che sembrava sul punto di strapparsi, come un cuscino troppo pieno di piume. Voleva nascondersi, non voleva farsi vedere in giro così. Voleva che la gente la ricordasse bella com’era quando recitava nei grandi teatri e i camerini si riempivano di rose in ogni stagione, quando al cinema gli schermi si illuminavano dei suoi sorrisi e anche il sole la cercava, ovunque fosse, per carezzarle i capelli. Luna aveva cominciato a nascondersi già da un po’ di tempo prima che Aurora nascesse. Quando tutti avevano smesso di cercarla si era ritirata dietro un sipario privato per non essere trovata, come se questa fosse la sua volontà e non il suo rapido declino. Aurora era solo figlia sua. Era nata quando aveva deciso di venire al mondo, alla fine di un tempo che nessuno aveva calcolato. Luna non si era mai presa cura di lei e ne aveva fatto una bambina diversa da tutti, dai capelli annodati e incolti, vestita con vecchi costumi da teatro tagliati all’altezza delle caviglie. Aveva smesso presto di mandarla a scuola per non sentirla piangere ogni mattina e le aveva insegnato la vita che si canta nelle canzoni, come se fosse l’unica cosa da sapere. Quando si erano trasferite nella casa che ancora abitavano insieme, al piano di sotto ci viveva un vecchio che non aveva famiglia. Il vecchio si era affezionato alla bambina, le voleva molto bene, e la portava ogni giorno con sé nella campagna. Aurora infine ignorava che ci fosse anche un’altra strada che portava in paese, come se la città fosse scomparsa per sua volontà e non per l’abitudine di non andarci. Quando il vecchio era morto, Luna si era occupata del funerale. C’erano solo lei e la figlia in chiesa durante la funzione o forse qualcun altro aveva aperto la porta per pochi secondi e subito se ne era andato, lasciando che uno spiraglio di luce entrasse al proprio posto. Solo dopo la morte del vecchio, la Luna aveva cominciato ad occuparsi della figlia con un’ansia neonata e le aveva vietato di uscire finché c’era giorno in cielo. Aurora così aveva cominciato ad andar fuori ogni notte e di certo non per obbedire alla madre, cosa a cui non era abituata, ma più per assecondare quelle paure che erano anche le sue. Per quanto conosceva la gente che viveva in paese, sapeva che usavano parole che non voleva sentire alle sue spalle. Quando aveva raccontato al vecchio cosa le era successo nei giorni in cui ancora andava a scuola, lui le aveva insegnato la lingua del vento che porta lontano le parole degli uomini. Il vecchio le aveva insegato che nella natura la voce umana si perde, perché solo il canto degli uccelli ha mille voci. Questo le aveva insegnato il vecchio. Ora, Aurora aveva imparato le canzoni dei gufi e delle civette e le cantava con loro come se fosse l’unica cosa da sapere, come se quello che invece aveva imparato da sua madre fosse senza alcuna realtà. Con il tempo, la Luna aveva cominciato a sentire sua figlia sempre più lontana, più di quanto lo fosse mai stata, come un sassolino lanciato verso il cielo che non ricade a terra. Una notte aveva deciso di seguirla. Era uscita poco dopo di lei perché non voleva perderla, sapeva di avere un passo lento che non le avrebbe permesso di seguirla troppo da vicino e infatti, già a pochi metri da casa, davanti alla fontana che segnava l’inizio della proprietà, erano già molto distanti. Dopo un po’ che camminavano, la vide dirigersi verso il fiume e danzare sui sassi bianchi che spuntavano dalle acque, stringere i rami più bassi del salice come fossero le mani di un vecchio amico e sussurrare con la voce del vento i suoi giovani sogni. Si accorse per la prima volta di non sapere chi fosse quella creatura che solo da lei era venuta al mondo, che aveva voluto come specchio di se stessa e in cui non si era mai specchiata. Solo quando erano di ritorno verso casa, la vide stendersi sui gradini della fontana per passarci la notte, le si avvicinò e la prese tra le braccia, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
In paese, pochi giorni dopo, iniziò a girare la voce che di notte nella campagna apparissero due fate e il figlio biondo del Sole, il padrone del bar nella piazza, quella sera stessa si avviò a piedi verso la strada che attraversava i campi.

Gianna Brigatta

Folle è il vento

3 aprile 2014

Sopra la città - Marc Chagall

Sopra la città – Marc Chagall

Ogni vento ha un nome, nasce da una rosa che ha sui petali i punti cardinali, come se ci fosse un fiore che sta nel cielo. Come se quel fiore avesse un respiro. Questo vento soffia da giorni. Soffia in tutti i cieli del mondo, in tutte le città e in tutti i deserti. Sta scuotendo ogni angolo di questo pianeta. Soffia in ogni continente, su ogni mare, su ogni oceano. Per strada le auto ribaltate strisciano sull’asfalto tra scintille pirotecniche, come se ci fosse qualcuno al volante che ancora riesce a farle correre oltre i limiti di velocità, così come sono con le ruote per aria. Quelle che si fermano, lo fanno solo in un ultimo schianto, quando si trovano davanti qualcosa che non è volato via con il vento. I guidatori che si sono salvati sono usciti dai finestrini lanciandosi come stunt man che tentano il miracolo. Le cose più leggere non toccano terra da quando questo vento ha iniziato a soffiare: ci sono sacchetti gonfi come mongolfiere, tutte le foglie che stavano sui rami degli alberi e biciclette senza ET sul sellino. Non ci sono uccelli, chissà dove sono. Donne, uomini e bambini sono dentro le proprie case, sotto quel che resta del tetto. La tv e la radio non trasmettono dal primo giorno, non funzionano neppure i telefoni. Il cielo è sereno e la notte si è riempita di stelle da quando le luci artificiali sono cadute sul campo, mentre il vento vince sempre ogni battaglia perché la follia è la sua forza. Il vento non ha paura. Ha portato il silenzio. La sua voce è l’unica voce oltre a quella dei pensieri. Non c’è modo di sapere più niente di quello che sta fuori dalla propria testa e dalla propria porta. La rete elettrica è saltata in aria e con lei l’informazione, i media e la world wide web. Il vento è più folle di ogni uomo, di ogni amore folle e più folle del mio che è il più folle di tutti. Guardare il suo spettacolo di distruzione contro tutto quello che avevamo alzato a nostro comodo e a nostra immagine e somiglianza, restando in piedi davanti alle finestre che hanno ancora i vetri, nelle stanze dove le porte sono state barricate prima che lui arrivasse a sfondare ogni resistenza, è come aspettare che prima o poi il nascondiglio che hai trovato sia scoperto, mentre un esercito che si è già preso tutto ora sta girando nelle tue stanze.
Ti guardo mentre dormi, la coperta che hai addosso astrae le tue forme. Io le riconosco anche così. Anche in queste notti in cui tu mi dormi accanto nel buio di ogni luce, riesco a vederti nelle mie carezze. Tu sei la mia primavera. Tra le mie foglie e i tuoi fiori è nascosto un nido che ospita la vita. Me l’hai detto in giardino, il giorno prima che questo vento cominciasse a soffiare, quando ancora il giardino aveva la tua stessa bellezza e i tuoi colori erano in ogni fiore che sbocciava. Nostro figlio avrà i tuoi occhi neri e tra i tuoi riccioli cresceranno le sue idee. Avrà la tua anima e la tua forza, la tua intelligenza e la tua saggezza. Perché sarà migliore di me.
Il vento ancora non ha tregua, ma se ti abbraccio trovo la mia. Sono stato vento anch’io. Prima di incontrarti ho distrutto chiunque e qualunque cosa mi fosse vicino. Non ho amici, non ho fratelli, non ho padre e non ho madre. Non ho mai avuto amore per nessuno, neppure per me stesso. Quando ti ho incontrato ti ho soffiato contro per tenerti lontano. Nel mio deserto ero al sicuro. Ma la primavera quando arriva mette le sue gemme e radica la vita sulla morte. Anche la primavera non ha paura. Hai soffiato il vento nel mio cuore e il vento era più folle di me.
Fuori vedo un uomo che cade e si rialza ad ogni passo, sbatte nei muri come un ubriaco, ma ha il sorriso sulle labbra. Quando mi vede alla finestra prova a raggiungermi e mi grida qualcosa che non posso sentire, forse chiede aiuto. Arriva più vicino, si sdraia sull’asfalto e continua a gridare, io accosto l’orecchio al vetro <Niente! […] più niente!>. Se fuori ora c’è un deserto non è il mio.

Quando ti svegli dico che vorrei prenderti per mano, portarti fuori, volare senza ali con il vento. Ma tu mi guardi e ridi, dici che sono folle e non sai che se non fossi così folle non ti avrei mai amato.

© Gianna Brigatta

Nero

14 marzo 2014

black

Sei fatta di bellezza. Sei bella anche con questa piega che ti increspa le labbra di domande che non mi vuoi fare. Vorrei essere io a giocare con i tuoi capelli mentre sei persa nei pensieri. Sei bella come un dipinto fresco vivo di colori. Ma per me sei una tela vuota.
Del  primo mese in ospedale ricordo il soffitto e le lenzuola, il suono dei tuoi passi che mi arriva vicino è invece un ricordo più recente. Prima del soffitto ogni ricordo è nero. Non ricordo la sera in cui sono sparito nel nulla e il nulla è il mio passato, la mia storia fatta di vuoti. Non sono nato nella grande città -se ci andremo insieme dovrai guidarmi tu per le sue strade!- dove da bambino non mi nascosi nel parco per una notte intera dopo aver litigato con mia sorella sconosciuta. Non sono scappato da casa a tredici anni per andare al concerto dei Ramones e il ragazzo che era con me non è il mio migliore amico, ascoltarlo oggi mi imbarazza perché mi racconta un diario troppo intimo da mettere tra le mani di uno sconosciuto. Solo i Ramones mi piacciono ancora, per il resto i miei cinque sensi sono cinque orizzonti lontani da ricucire sopra un’anima che ancora vaga come un fantasma. Sono il centro del vortice, il cuore del vuoto, ruoto nel buio come un pianeta senza sole.
Tu sei la donna di un altro. Sei bella, Faith e potrei credere che la mia storia sia la tua, ma non posso ancora amarti. Sei la sconosciuta che mi volto a guardare quando passa. Ogni bacio che ci siamo dati è nero. I miei baci adesso ti brucerebbero le labbra e mi lanceresti parole come coltelli dopo aver fatto sesso. Anche tu sei un vuoto. Non ti ho mai incontrato nel mio viaggio in Europa alla fine del college. Non sono mai stato a Londra e non ho mai attraversato tutti gli Stati Uniti per ritrovarti una settimana dopo il mio rientro a casa. Non ho mai vissuto in quella casa. Mio padre è una fotografia che sfuma nel nero e mia madre è un’altra donna che piange.
Anche se prendessi in mano uno di questi fogli bianchi che spargete ai miei piedi, che sono fragili come se fossero fatti d’argilla, non potrei inventarmi una vita perché non sono capace di immaginazione. Forse potrei disegnare le ombre con mano leggera per trovare la luce che scopre le forme. Senza luce ogni cosa è fatta di nero, ogni cosa è un vuoto.
Oggi sono uscito per fare due passi, era l’ora in cui i ragazzi uscivano dalla scuola qua vicino, un gruppo di cinque mi è stato davanti per un po’ di tempo, non avevano voglia di tornare a casa e avevano un passo lento. Ridevano, quasi non parlavano per niente, ridevano e basta. Io non so più ridere come loro e non ricordo di quando lo facevo, quando ancora non mi ero appassito tra le giacche che sono nel mio armadio. Mi vestivo di nero alla loro età, l’ho visto nelle foto. Nel mio nulla il nero mi sembra quasi un ricordo. È a questo punto che mi è venuta l’idea di farmi il tatuaggio, di farmi scrivere “BLACK” sul polso destro, solo poi, dopo essere entrato in negozio, ho aggiunto “RAMONES” sul sinistro. Non  indosserò l’orologio, posso stare senza. Il tempo non ha senso se non hai più passato.
Quando sono rientrato, pochi minuti fa, tu eri sulla porta e stavi per uscire. Come se fossi un ragazzino mi sono scoperto i polsi e ho tolto le garze per farteli vedere, i miei primi tatuaggi. Non pensavo che ti saresti messa a piangere, Faith. Mi hai baciato di lacrime le mani. Sei bella e stai qua a guardarmi senza domande. Annodi una ciocca di capelli sull’indice della mano alzata, come per legarti a qualcosa che non si può dimenticare. Vorrei essere io a giocare con i tuoi capelli, te l’ho mai detto prima di adesso? È stringendo i nodi che si ricuciono i ricordi? Domani tornerò al negozio, ora voglio che ci sia scritto “TEARS” sulle mie dita. Posso usare il mio corpo come un taccuino, non credi? Usciamo in giardino mentre il tuo telefono squilla nella borsa. Resti con me, in piedi sulla porta di questa casa, potresti rispondere, ma mi dici che non vuoi. Qualcuno ti sta cercando, Faith. Si è fatta notte, il cielo è nero e sembra vuoto come tutto il resto, senza stelle e senza luna.
Se anche tu potessi dimenticare, Faith, potremmo forse incontrarci a Londra?

© Gianna Brigatta

Tunnel

7 marzo 2014

Immagine

È ancora notte quando mi sveglio. Non mi ha svegliato un rumore, mi ha svegliato il silenzio. La mia camera ha una luce strana. Come se fuori dalla finestra, sospeso in quella toppa di cielo, ci fosse un disco volante che fa scendere un raggio luminoso sul giardino. Come se il mondo che non lo aspettava avesse la gola secca e fosse ammutolito dallo sbalordimento. Scendo dal letto, pronto a incontrare gli alieni. E invece vedo la neve, tanta neve. Non andrò a scuola per giorni. Non ho mai visto tanta neve così. È quasi incredibile che sia caduta tutta in poche ore. Forse sono due notti che dormo o forse non mi sono svegliato affatto. Mi pizzico forte la guancia, stringo e storco, come fanno i ragazzi cattivi. Sono sveglio, non c’è dubbio, e ho una guancia dolorante come se mi fosse spuntato un ascesso.

Della casa dei vicini che abitano di fronte si vede solo il primo piano: ci sono due finestre sulla facciata, quella della camera dei genitori sulla sinistra e quella di Lily proprio qui davanti. Da sotto il mio davanzale si stende un mare di neve. Oh, Lily, vorrei che anche tu mettessi il naso fuori! È una cosa mai vista! Tutto questo bianco è un altro mondo. Ma tu dormi, il silenzio non ti ha svegliato. Vorrei venire a chiamarti, battendoti al vetro della finestra per farti uscire. Potrei correre veloce sul mare di neve e raggiungerti. Potrei sprofondare dopo pochi passi, lo so. Forse potrei scavare un tunnel. Con un tunnel resterei a galla, compattando il sentiero del mio cammino. Se riesco a raggiungerti saremo da soli in città, continuerò a scavare tunnel finché non l’avremo girata tutta. Tu sarai la mia Regina delle nevi, potrei fare una treccia con i tuoi capelli d’oro e appuntarteli sulla testa, così avresti la tua corona. Oh, Lily! I tuoi capelli d’oro sono la luce dei miei pensieri del colore del piombo. Sono le funi a cui mi attacco per risalire. Mia madre dice che sono un serpente in muta ed è dura cambiare pelle. Ma ora che anche il mondo è cambiato forse sarà più semplice. Senza la neve tutti sanno dove andare, mi sembra di essere l’unico che non conclude niente, che non sa dove sbattere la testa nell’indecisione più completa. Vedi, Lily, anche con te adesso sono proprio un altro. Di solito quando ci incontriamo per strada non ti saluto neppure, piuttosto guardo il muro finché non sei passata, o affondo la testa nello zaino come se le chiavi di casa non le tenessi attaccate al collo. Ora scaverei un tunnel per raggiungerti e ti porterei con me fino a dove la città cambia nome o anche più lontano. Passerebbero mesi prima di tornare a casa, siamo all’inizio dell’inverno e ci saranno altre nevicate. La neve potrebbe arrivare a toccare i tetti, potrebbe superarli, continuando a camminare ci potremmo chiedere che fine hanno fatto i nostri genitori, gli amici e anche quelli di cui non sappiamo neppure il nome. La donna che sta fuori dalla scuola e ci mostra la lingua ogni mattina quando entriamo. L’uomo sulla panchina del parco, che si gratta le ascelle come fanno le scimmie. La strega che abita la vecchia casa in fondo alla strada da mille anni e che esce ogni notte per sfamare i bambini che ha trasformato in gatti. Forse non torneremmo a casa mai più. I miei capelli comincerebbero ad allungare e i tuoi toccherebbero terra, come raggi di sole che non possono sciogliere tutta questa neve.

Mi vesto, indosso gli scarponi e infilo i guanti di camoscio. Apro la finestra e mi siedo sul davanzale, appena appoggio i piedi sulla neve fresca comincio a sprofondare, ma riesco a muovere le braccia come un tuffatore prima di un carpiato e inizio a scavare il tunnel. Dopo mezz’ora sono riuscito ad avanzare meno di un metro, ma posso guardarmi intorno dall’altezza di metà busto e mi sembra di essere l’unico sopravvissuto all’era glaciale. Dopo qualche ora che scavo, sono arrivato quasi a toccare la tua finestra, mia madre grida e piange da quella di camera mia, dice che sono diventato pazzo e forse non ha tutti i torti, se è vero come è vero che sto scavando il tunnel. Ma ho trovato il coraggio di venire da te, non quello di iniziare a scavare. Ho lasciato la mia vecchia pelle sul letto, insieme al pigiama.

Devo battere sul tuo vetro per un bel po’ prima che ti svegli dai tuoi sogni. Quando apri gli occhi e mi vedi, ti alzi sul letto come una bambola a molla e ti copri la bocca. Ti vesti e vieni da me con i capelli ancora annodati di sonno, sono stelle esplose che illuminano il tuo volto pallido. Apri la finestra e mi guardi come se fosse incredibile più la mia presenza che il resto del mondo scomparso sotto un mare di neve. Ti prendo la mano e camminiamo insieme fino a metà del mio tunnel, poi riprendo a scavare in un’altra direzione. Mia madre non urla più ed è tornato il silenzio. Poi Lily inizia a cantare.

© Gianna Brigatta